Nel 1926 John Nolen metteva a confronto la riorganizzare e la ricostruire delle città esistenti con la costruzione di nuove. La questione principale per l’urbanistica è incrementare la consapevolezza di ciò che comporta il processo della fondazione di un nuovo organismo urbano, dato che in esso vengono coinvolte nuove comunità di persone, sosteneva l’urbanista statunitense su City Planning. Il problema della costruzione di nuove città è quindi diverso dalla riorganizzazione di quelle città esistenti : progettare e costruirne di nuove significa usare conoscenze, potenzialità, previsioni.Le città nuove devono esprimere nuovi criteri e nuovi ideali, cercare di risolvere i problemi moderni e rispondere alle nuove situazioni.
Di ragioni per costruire nuove città, secondo Nolen, ce ne erano due: l’organizzazione di nuovi territori e la risposta a nuove domande espresse dalla società attraverso l’urbanistica. In ogni caso la nuova città doveva possedere quattro caratteristiche fondamentali: 1) essere adeguatamente localizzata dal punto di vista geografico; 2) essere pianificata in rapporto alle infrastrutture e alle componenti naturali; 3) avere una chiara funzione; 4) essere dimensionata con precisione. Ma a chi spetta proporre la costruzione di una nuova città – si chiedeva Nolen – all’iniziativa privata o allo stato? Difficile rispondere in modo netto, anche se lo stato è il soggetto che ha il compito di informare adeguatamente l’opinione pubblica dei vantaggi consentiti dalla progettazione di nuove città corrispondenti alle nuove domande, comprese quelle di una migliore qualità estetica, di una maggiore dotazione di attrezzature culturali e di spazi verdi. Insomma nuove città che innalzino la qualità della vita, materiale e spirituale.
A distanza di nove decenni sembra che la costruzione di nuove città non abbia smesso di sollecitare progetti in giro per il mondo e The Guardian ha redatto un ironico manuale in venti punti sull’attivazione del processo a partire dall’analisi di un certo numero di piani: da Songdo, Corea del Sud, a Lavasa in India, attraverso la nuova – e per ora senza nome – capitale dell’Egitto. Basta che ci sia una certa quantità di terra vergine – non importa che sia un pezzo di deserto, di giungla o un’isola disabitata – dell’acqua sufficiente, un cospicuo investimento in denaro, posti di lavoro, una buona pianificazione che integri adeguatamente gli aspetti ambientali, rispetto per le comunità locali precedentemente insediate, connettività, tanto verde e spazio per attività culturali, naturalmente un nome, e il gioco sembra fatto.
Sembra, perché è evidente che dietro le immagini accattivanti dei rendering che corredano l’articolo c’è una realtà alquanto diversa, fatta di una buona quota di autoritarismo e di potere del denaro, molto superiore a quello, ad esempio, dei lavoratori che stanno costruendo Lusail City in Qatar in condizioni di semi schiavitù. E forse non basta la spruzzata di equità, come nel caso di Rawabi, la nuova città palestinese interamente finanziata da fondi privati, pensata per dare una condizione abitativa migliore rispetto alle difficoltà che ha la vicina Ramallah. Non sembra un caso il fatto che le nuove città prevalgano in paesi dove non esiste la democrazia, come l’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi. Domina l’impressione che si tratti di cittadelle, fortezze del danaro e del potere, piuttosto che luoghi dove possa vivere la popolazione che si prevede debba abitarle. Astrazioni che hanno poco a che fare con il processo che da qualche migliaio di anni produce la città e molto di più con le strategie del real estate o con le manie di grandezza di qualche regime totalitario.
Riferimenti
S. Jeffries, How to build a city from scratch: the handy step-by-step DIY guide, The Guardian, 30 giugno 2015.
In copertina il rendering della nuova capitale dell’Egitto tratta da The Guardian.