La sharing economy è un vantaggio o una iattura per le città? Le risposte a questa domanda sono contraddittorie e in particolare è poco chiaro il ruolo giocato da Airbnb sul mercato degli affitti, soprattutto nelle città a più alta vocazione turistica, in relazione al loro rialzo pur in presenza di valori immobiliari in calo. Tuttavia, al di là di città come Venezia o di Firenze dove l’offerta di locazione turistica era già alta e poco regolamentata anche prima dell’arrivo in Italia del colosso americano degli affitti brevi, la possibilità di affittare in modo alternativo alla locazione di lungo periodo ha effettivamente cambiato le prospettive di chi è proprietario di una unità residenziale e decide di metterla a reddito. Quanto abbia però influito, in termini numerici, l’opzione dell’affitto per brevi periodo – con tutto ciò che comporta in termini di gestione – sui proprietari di case è questione è ancora da approfondire.
Incrociando ad esempio i dati 2016 forniti dal sito Osservatorio Immobiliare sull’offerta residenziale in affitto con quelli di Airdna che analizza i dati delle proprietà affittate attraverso Airnbn è possibile farsi un’idea del rapporto esistente tra immobili residenziali nel mercato dell’affitto convenzionale e quello a breve termine, cioè con una durata che per legge non può essere superiore ai 30 giorni. Il confronto dei dati è stato fatto in questo caso per Roma, Milano, Firenze e Venezia, ovvero per città in cui l’impatto del turismo, pur essendo alto e/o in forte crescita, come nel caso di Milano, si connota in modo diverso rispetto all’economia della città.
A Venezia, Firenze e Roma il rapporto tra gli appartamenti affittati per brevi periodi via Airbnb e quelli disponibili a lungo termine effettivamente dimostra che l’impatto delle soluzioni short term rispetto ai contratti convenzionali è alquanto significativo. A Venezia c’è quasi lo stesso numero di appartamenti affittati a breve termine rispetto a quelli presenti sul mercato convenzionale (il rapporto è del 96%), cifra che diventa poco più della metà a Firenze (51%) e poco meno di un terzo a Roma (30%). A Milano invece questo rapporto si ferma al 14%: se solo un appartamento contro i sette disponibili ad essere affittati permanentemente può essere occupato per brevi periodi c’è da chiedersi quanto i maggiori introiti assicurati da questa ultima soluzione (un bilocale in zona semicentrale affittato via Airbnb consente un reddito medio mensile pari a quello di un trilocale affittato a lungo termine) possano spingere i proprietari di unità residenziali a scegliere gli affitti brevi, che hanno costi di gestione maggiori dovuti ai servizi aggiuntivi offerti insieme alla abitazione. Ciò su cui si ragiona troppo superficialmente è che fare l’host con Airbnb non equivale all’essere il padrone di casa di un appartamento arredato del quale non ci si occupa più una volta firmato il contratto. Decidere di affrontare l’impegno dei check in e out con frequenza più che settimanale non ha niente a che vedere con la consegna del proprio appartamento per quattro anni a persone che se ne prenderanno cura (o forse sono proprio le ricadute del lungo termine sulle successive manutenzioni che potrebbero spiegare la crescita esponenziale degli affitti brevi al di là della domanda generata dal turismo?).
Un altro aspetto che classifica in modo molto diverso l’offerta di affitti di appartamenti a breve termine rispetto al lungo termine e l’effettiva durata dell’affitto nel corso dell’anno. A Milano il 77,1% di tutte gli spazi residenziali (case intere, stanze private e stanze condivise) affittati tramite Airbnb viene occupato per 1-3 mesi, mentre questo dato a Roma è del 59,9, a Firenze del 58,6% e a Venezia del 54,6. Ciò significa che a Milano oltre i tre quarti della offerta di locazioni brevi viene svolta occasionalmente, mentre nelle città a maggiore vocazione turistica l’ospitalità occasionale si attesta a poco più della metà di quella a più lungo termine. Se si confronta poi il numero di inserzionisti multipli, cioè coloro che affittano più di una proprietà su Airbnb, si nota ancora come nelle città a maggiore vocazione turistica il servizio offerto dalla piattaforma americana sia diventato uno strumento aggiuntivo per chi già affittava a breve termine ai turisti. A Firenze il 36% degli inserzionisti propone più di una stanza o appartamento, a Venezia è il 34%, a Roma il 30% mentre a Milano è solo il 16%. Specularmente a Firenze il 4,6% delle proprietà su Airbnb viene affittata per 10-12 mesi l’anno, percentuale che è del 4,3 a Roma, del 3,1 a Venezia e del 1,8 a Milano. Sembra quindi che l’offerta già esistente e sommersa di appartamenti turistici sia in qualche modo emersa proprio grazie ad Airbnb, piattaforma che viene utilizzata anche da regolarissimi B&B per rendersi più visibili.
In sostanza accusare Airbnb di perturbare il mercato degli affitti di unità residenziali che potrebbero diventare abitazioni a lungo termine è troppo semplicistico. Prima bisogna distinguere tra coloro che affittano uno o due stanze di una casa di proprietà diventata troppo grande perché i figli se ne sono andati, oppure l’appartamento avuto in eredità mobilio incluso in attesa di decidere se venderlo o affittarlo, da coloro che agiscono con criteri professionali in un mercato già esistente – come quello delle locazioni turistiche – usando i vantaggi di una piattaforma che ha milioni di utenti nel mondo. I primi, coloro che condividono con ospiti paganti una parte della casa in cui risiedono, costituiscono l’ossatura della sharing economy, i secondi invece speculano sulla flessibilità dell’economia della condivisione.
L’amministrazione comunale di Milano ritiene, ad esempio, che avvantaggiarsi della opportunità delle locazioni brevi sia una occasione di sviluppo dell’economia della città. Airbnb fa parte di una serie di soggetti cui è stato dato il compito di promuovere la sharing economy; il settore degli affitti brevi d’altra parte era già stato normato da una recente legge regionale che regolamenta la ricettività turistica svolta da privati. Chi voglia condividere parte della propria abitazione può già farlo basta che comunichi di aprire la propria casa ad ospiti paganti, ne trasmetta i documenti alla Questura (come fanno normalmente gli alberghi) e riscuota la tassa di soggiorno per svolgere un’attività perfettamente lecita i cui proventi, come in ogni altro settore, vanno poi dichiarati al fisco. L’equiparazione tra affitti brevi ed evasione fiscali è quindi del tutto ingiustificata, almeno in Lombardia. Il problema è piuttosto individuare chi approfitta della domanda in forte crescita di ricettività a costi decisamente più contenuti rispetto a quelli delle attività alberghiere per svolgere attività che sfuggono alle normative vigenti e al fisco. Piuttosto che combattere Airbnb sarebbe forse meglio che fossero stretti accordi per il disbrigo degli adempimenti fiscali e perché l’enorme zona grigia che caratterizza certa offerta turistica da molto prima dell’esistenza della piattaforma online possa finalmente emergere.
Al di là del turismo, nei confronti del crescente numero di coloro che hanno bisogno di spostarsi frequentemente per studio o lavoro, la disponibilità di una quota di patrimonio residenziale a prezzi decisamente più accessibili rispetto all’offerta alberghiera potrebbe essere una opzione da prendere in seria considerazione. Una quota emergente di popolazione è già più mobile rispetto a quanto succedeva nel passato; governare il fenomeno, senza ostacolarlo o demonizzarlo con inutili stereotipi, potrebbe essere una buona idea.
Riferimenti
L’immagine di copertina è tratta da AirbnbCitizen, Milan Embraces Airbnb & Simplifies Home Sharing Rules, 18 settembre 2015.
Osservatorio Immobiliare, Quotazioni immobiliari nelle città italiane, 2016.
Airdna, Airbnb data & insights to succeed in the sharing economy.