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Jane Jacobs e l’urbanistica del Bel Paese

A settembre è stata pubblicata da Elèuthera Città e libertà, un’interessante antologia di scritti di Jane Jacobs inediti nel nostro Paese. Diverse recensioni ne hanno già illustrato e commentato i contenuti. Mi domando in queste righe se sia rimasto qualcosa, e quanto, nell’urbanistica italiana degli insegnamenti di Jacobs.

Due aspetti interessanti emergono dall’antologia. Uno è noto, la critica della studiosa di urbanistica al modernismo e al suo approccio deterministico, teorico, dall’alto. Un altro è meno noto, almeno nel nostro Paese, l’impegno civile della cittadina su temi come l’uscita dal conflitto in Vietnam, la difesa del libero pensiero, e soprattutto le lotte contro il progetto autostradale che avrebbero cancellato o alterato per sempre i quartieri del sud Manhattan. Alcuni brani dell’antologia sono particolarmente intensi, ne emerge una visione molto elevata della democrazia e dei suoi valori, che anche per molti in Europa nati nel secondo dopoguerra ha rappresentato la parte più nobile del sogno americano. Valori che, se si eccettua la parentesi della Presidenza Obama, si fa fatica a ritrovare negli Stati Uniti degli ultimi anni.

Jacobs ci parla di piani e progetti che vengono sviluppati partendo dal basso, dai bisogni e desideri portati da cittadini che direttamente partecipano al percorso di pianificazione e progettazione. Ma nulla di tutto questo è arrivato nel nostro Paese. Negli anni Settanta e Ottanta vengono sviluppati i piani di tutela dei centri storici, che prendono le distanze dal modernismo e da come questo vedeva la città storica. Forse una qualche influenza degli scritti di Jane Jacobs su questi piani c’è stata, ma in ogni caso non determinante rispetto a un’azione che è maturata nel dibattito culturale e disciplinare interno al nostro Paese e al contesto Europeo.

L’operazione sui centri storici è stata un’operazione di origine intellettuale, immaginata e calata dall’alto, senza un vero e proprio coinvolgimento degli abitanti interessati. Anche se nell’operazione era compreso il mantenimento della popolazione e delle attività artigianali insediate, nella realtà tale indirizzo emergeva più da una scelta teorica, da una presa di posizione disciplinare, che da una esigenza emersa dal basso. Se da un lato l’ambiente fisico è stato salvato dall’altro il miglioramento della qualità abitativa degli spazi e l’incremento dei valori degli immobili hanno innescato in quasi tutti i centri storici processi di gentrificazione, con l’espulsione verso la periferia della popolazione preesistente, e l’attrazione dei ceti più facoltosi, che dell’abitare nel centro storico ne hanno anche fatto uno status symbol.

In realtà negli ultimi anni la situazione si è di nuovo messa in moto, con la moria delle attività commerciali e artigianali tradizionali, a fronte della concorrenza del commercio on-line o delle grandi strutture di vendita. Segni di degrado cominciano a vedersi nei centri storici, e non è ancora chiaro dove questo potrebbe portare.

La partecipazione non sembra fare parte del nostro dna culturale, per molte ragioni che sarebbe lungo spiegare, che hanno origini profonde nella nostra storia millenaria e nella nostra matrice religiosa prevalentemente cattolica. Ma non si deve pensare che sia una fatalità, un destino inevitabile. Né che sia solo una questione di indifferenza, individualismo, o mancanza di tempo. I cittadini non hanno spesso le competenze tecniche specialistiche per muoversi in una disciplina complessa e piena di insidie come l’urbanistica. Necessitano di un supporto professionale che li aiuti a fare valere le proprie ragioni nei tavoli negoziali. Un supporto che sia indipendente, che per essere tale dovrebbe essere garantito dagli uffici degli enti pubblici, i quali tuttavia non hanno competenze adeguate o in alcuni casi addirittura sostengono le ragioni dei grandi gruppi immobiliari. Non è raro vedere processi partecipativi fasulli, affidati a facilitatori di professione, che si trasformano in operazione di ingegneria del consenso, dove l’esito è predeterminato e le istanze dei cittadini vengono abilmente circoscritte, incanalate e neutralizzate. Altro che attenzione all’ambiente urbano, ai suoi spazi, alle esigenze degli utilizzatori. Prevalgono soluzioni imposte dall’alto, che adottano uno stile internazionale indifferenziato (nel senso di indifferente al contesto in cui si colloca), atteggiamento che ha appunto ancora oggi le proprie radici nel modernismo.

Nei paesi di lingua anglosassone la partecipazione diretta dei cittadini alla pianificazione e progettazione è più strutturata. I cittadini arrivano al tavolo negoziale più preparati, o comunque coadiuvati da esperti realmente indipendenti, talvolta messi a disposizione dagli uffici comunali o dalle istituzioni universitarie. Le esigenze e idee dal basso trovano un modo per essere presentate e fatte valere in modo più efficace. Ci saranno forse in questi Paesi un diverso senso civico, amministratori politici più preparati e con maggiore senso delle istituzioni, una scala di valori condivisa che manca da noi. Ma c’è soprattutto la possibilità di organizzare un sostegno alla partecipazione dei cittadini qualificato e indipendente.

In un contesto del genere le sollecitazioni di Jacobs hanno trovato terreno più favorevole, e non ne hanno beneficiato solo la partecipazione democratica ai tavoli negoziali, ma anche la ricerca universitaria che si è aperta verso una migliore comprensione dei caratteri degli spazi pubblici accogliendo il contributo di altre discipline scientifiche (antropologi, biologi, psicologi, sociologi, ecc.).

La voce di Jacobs è stata particolarmente efficace, tanto da riuscire a farsi sentire e acquisire autorevolezza anche tra i non addetti ai lavori, quindi al di fuori del mondo urbanistico. Ma rimanendo all’interno degli addetti ai lavori non è stata la sola in quegli anni. Lo stesso anno (1961) in cui veniva pubblicato The Death and Life of Great American Cities, in Gran Bretagna usciva Townscape di Gordon Cullen (2), una raffinata analisi degli spazi pubblici sulla base dei principi di percezione visiva, che inoltre contestava la povertà progettuale e sociale delle new town. Nel 1960 Kevin Lynch professore all’MIT di Boston pubblica The Image of the City dove mettendosi nei panni degli abitanti si domanda come questi percepiscano la città e i suoi spazi.

A seguito di tutte queste sollecitazioni si apre una fase per così dire di “ascolto” dell’urbanistica che ha prodotto un’ampia letteratura e metodologie applicative che sono raccolte nella più generale dizione di urban design, filone allo stesso tempo complementare e indipendente rispetto all’ urban planning. Si ricorda l’approfondita indagine sulle correlazioni tra socializzazione e traffico nelle strade urbane condotta nell’Università di Berkeley da Donald Appleyard e pubblicata nel 1981 nel volume Livable Streets, o il volume del 1980 di William H. Whyte The Social Life of Small Urban Spaces che riporta i risultati di estese analisi degli spazi urbani condotte anche con tecniche di time-lapse filming. Sempre del 1981 è il saggio di Kevin Lynch A Theory of Good City Form dove viene ipotizzato un sistema di ingredienti prestazionali per la definizione di una buona forma urbana.

Tra i contributi da altre discipline particolarmente ricco è il filone degli studi sull’interazione tra essere umani e loro ambiente e le possibili applicazioni alla progettazione degli spazi urbani. Tra questi è di grande importanza la lunga serie di scritti dell’architetto e antropologo Amos Rapoport, che riassume gran parte della letteratura di questo filone nel suo saggio del 1977 Human Aspects of Urban Form e che si batte per la progettazione di spazi che siano densi di significato (vedere il suo volume del 1982 The Meaning of the Built Environment). Un filone interessante e da noi poco noto riguarda la ricerca dei fattori biologici, quindi legati alla specie, che influenzano la percezione visiva degli spazi. La finalità è di identificare le costanti di preferenza, indipendenti dalle influenze culturali e individuali, da applicare nella progettazione. Importane riferimento sono gli studi di due psicologi ambientali negli anni Settanta e Ottanta Stephen and Rachel Kaplan.

In Italia questi lavori non hanno avuto diffusione, solo pochi sono stati tradotti. La presenza in Europa di centri storici con spazi urbani di grande qualità ha portato nel vecchio continente ad approfondire lo studio delle forme tradizionali. Si pensi al catalogo tipologico di spazi urbani curato da Rob Krier nel bel volume del 1975 Stadtraum in Theorie und Praxis. Oppure gli studi sui tipi di forme urbane di Saverio Muratori negli anni Sessanta, poi continuati da Gianfranco Caniggia e Paolo Maretto.

Tra i pochi tentativi in questo Paese di mettersi dal punto di vista degli utilizzatori degli spazi urbani, soprattutto pedoni, mi vengono in mente le lezioni che Costanza Caniglia Rispoli teneva nel suo corso di urbanistica negli anni Ottanta all’Università di Napoli raccolte nel bel volume Guardare/vedere: i pieni e i vuoti, il cambiamento, l’uso dell’ambiente.

Le citazioni di queste righe sono molto parziali, basate sulla mia esperienza personale di molti anni fa, non ho la pretesa di essere sistematico. Sono solo esempi per ricordare che mentre nel mondo anglosassone l’insegnamento di Jacobs ha aperto nuovi orizzonti di conoscenza, per vedere e capire la città dal punto di vista dei suoi utilizzatori, qui in Italia solo il suo saggio più noto ha circolato, e qualche scritto di Lynch. Sarebbe oltremodo utile oggi rileggere gli scritti di questa studiosa e attivista, come ci propone l’antologia non a caso intitolata Città e libertà. C’è molto da imparare dalla Jacobs dei diritti civili, in un Paese come il nostro dove i valori si stanno sfaldando e le nostre istituzioni non sono più in grado di curare quella componente fondamentale della città e del territorio che siamo soliti chiamare “bene comune”, che dovrebbe soddisfare i fabbisogni e rappresentare gli interessi della comunità locale. Vogliamo colmare questa disparità con i paesi anglosassoni, oppure vogliamo con atteggiamento snobistico continuare a disinteressarci, e anche disprezzare, quanto succede all’estero rinchiudendoci nel nostro autoreferenziale provincialismo?