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Oltre l’invenzione di Milano

Parte Prima

Il libro di Lucia Tozzi “L’invenzione di Milano” (Napoli,edizioni Cronopio, 2023) parla della trasformazionedi Milano, nell’ultimo decennio a partire da Expo 2015, in una città attrattiva, esclusiva e del lusso, un modello da imitare, attraverso un’operazione di marketing comunicazione nella quale un ruolo determinante è stato svolto dalla finanza (1). Il testo scorre piacevole alla lettura, grazie anche alla scrittura chiara e diretta, più giornalistica che accademica, che rende i contenuti accessibili anche ai non addetti ai lavori. Il libro è ricco di informazioni e articolate argomentazioni. Richiamo di seguito qualche passaggio significativo a titolo di esempio (2).

Nel periodo tra il 2008 e il 2018 la popolazione residente aumenta di circa 100.000 unità, passando da 1.300.000 a 1.400.000 abitanti, risultato dell’arrivo di circa 500.000 nuovi residenti e l’uscita verso i comuni limitrofi di 400.000 persone. In dieci anni si compie un processo di sostituzione dei residenti, sistematicamente perseguito, che è selettivo e molto duro, ma viene presentato come inclusivo attraverso una precisa strategia di comunicazione. Molti di coloro che abitano da anni la città, ma sono percettori di redditi bassi, sono costretti a spostarsi verso i comuni esterni dall’incremento dei valori immobiliari e degli affitti. Il loro posto viene preso da una popolazione benestante più dinamica, nel senso di meno stanziale (3), composta da nomadi digitali, intermediatori finanziari, studenti, che si inseriscono nelle nuove abitazioni immesse sul mercato dai tanti interventi di cosiddetta rigenerazione urbana. L’operazione per riuscire prevede la neutralizzazione di ogni possibile opposizione attraverso la frammentazione del corpo sociale cittadino e successiva ricompattazione, con l’impulso dei nuovi arrivati, attorno al nuovo marchio Milano. La competitività della città viene prima di ogni altra esistenza. Non c’è spazio per discutere di alternative, per le decisioni politiche; marketing e comunicazione devono prevalere.

Libero arricchimento, solidarietà ed equità devono convivere in
modo naturale, o quantomeno così deve apparire in modo credibile.
La costruzione ideologica di un’eccellenza, di un modello da imitare, ha finito per drenare e accentrare sul capoluogo i finanziamenti pubblici a scapito dei territori limitrofi e di quelli del resto d’Italia. Ma proprio la constatazione delle disuguaglianze prodotte tra Milano e le altre città dovrebbe auspicabilmente frenare dal considerare questo un modello da riprodurre anche in altri contesti.

Le questioni pubbliche rimangono fuori dall’urbanistica, che il Politecnico immagina per una Milano flessibile, centrata sul pragmatismo della mediazione tra gli interessi privati dei grandi attori e dei piccoli proprietari, lasciando in secondo piano le questioni pubbliche (4). Il Comune di Milano con il Piano di Governo del Territorio approvato nel 2012 e soprattutto con l’aggiornamento del 2019 ha accettato di indebolire il proprio potere politico decisionale sugli assetti del territorio preferendo concentrarsi su un ruolo di facilitatore dei processi di trasformazione proposti dai privati. Ha perso in questo modo potere contrattuale, e capacità di fornire adeguati servizi pubblici, e li ha affidati in convenzione ai privati, contribuendo a creare quartieri sempre più esclusivi, non solo nelle abitazioni ma anche nei servizi offerti, privati e costosi.

Queste sono solo alcune delle riflessioni intriganti contenute nel libro. L’invito è a leggere il testo originale che, con la sua prosa comunicativa ed efficace, è difficile da riassumere in un breve articolo senza perdere per strada qualcosa della sua forza persuasiva. Se la parte analitica è, come detto, ben documentata e costruita, meno convincenti appaiono le soluzioni proposte; in 200 pagine ci sarebbe lo spazio ma il testo si ferma alla descrizione di due visioni contrappostesenza andare molto oltre l’analisi. Da un lato c’è il modello Milano ultraliberista, come viene visto da chi non lo condivide, come l’autrice. Dall’altro le argomentazioni di coloro che lo criticano, considerati perdenti da chi ha inventato il modello.

La realtà è più complessa, ma il libro non esce dallo schema e sembra anzi a tratti contare sulla radicalizzazione del contrasto come mezzo per risvegliare le risorse culturali e associative, ipnotizzate dalla strategia di comunicazione del nuovo modello. Qualche suggerimento è presente solo nelle ultime pagine, dove sprona a boicottare l’egemonia della rendita andando oltre la denuncia dell’etica della valorizzazione o la contrapposizione sul piano comunicativo. Afferma l’autrice che bisogna smettere di puntare sulla città del lusso e focalizzarsi, per uscire dallo stallo, sulle azioni da mettere in campo per deconcentrare la ricchezza, per creare spazi vari, vitali e desiderabili. L’incremento dei valori immobiliari porta invece verso una città classista, diseguale ed esclusiva, che si offre alla sola fruizione dei ricchissimi e dei turisti, una città arida, sempre più vuota di funzioni vitali. Non si può che condividere l’appello per una maggiore vivacità, multifunzionalità e desiderabilità degli spazi urbani. Non è una novità, se ne parla già da molti anni, anzi decenni. Il problema è come fare per arrivare a questo risultato, quale strada intraprendere, quali mezzi utilizzare.

Jane Jacobs più di mezzo secolo fa aveva fatto un appello analogo, partendo dalla critica alla zonizzazione monofunzionale, e aveva avanzato una proposta e azioni concrete per realizzarla. Il suo messaggio aveva allora scosso lo status quo portando profonde innovazioni nell’urbanistica, ma ben poco di questo messaggio è arrivato nella nostra penisola.
In Italia negli anni Settanta e Ottanta è stata dedicata molta attenzione al recupero dei centri storici, consentendo di migliorare le condizioni di conservazione del patrimonio inestimabile di edifici e spazi pubblici delle nostre città. Ma si era trattato di un un’operazione che per quanto encomiabile veniva dall’alto, era un’iniziativa accademica, non coinvolgeva gli abitanti e le attività in essere nei centri storici. La città fisica ne ha beneficiato, ma le conseguenze sul tessuto sociale urbano sono state devastanti, e continuano ancora oggi. Con le migliori condizioni fisiche sono aumentati anche i valori immobiliari e, in assenza di politiche pubbliche di riequilibrio, è iniziata l’espulsione dal centro degli abitanti e delle attività artigianali. Inoltre, a peggiorare la situazione, nei decenni successivi l’espansione della grande distribuzione e l’estensione delle formule di franchising hanno avviato la chiusura o delocalizzazione degli esercizi di vicinato e dei negozi tradizionali. Già allora si erano create forme di gentrificazione, anticipazioni dei più recenti effetti della rigenerazione urbana, che a Milano, e non solo, ha sostituito la pianificazione urbanistica.

Il libro a mio parere dimentica, o comunque non evidenzia a sufficienza, due fattori di fondamentale importanza, per riportare l’attenzione sulla città pubblica: la pianificazione urbanistica-territoriale e la dimensione metropolitana di Milano. L’interesse per l’urbanistica è andato progressivamente spegnendosi negli ultimi due decenni, non solo a Milano. Oggi i piani urbanistici si fanno quasi solo per conformare i suoli, ossia per deciderne le destinazioni d’uso, attribuendo diritti edificatori che generano plusvalore il quale, in assenza di un serio intervento di redistribuzione dell’amministrazione cittadina, finisce quasi tutto nelle mani dei privati. Ciò avviene nonostante la norma nazionale preveda che almeno il 50% venga destinato a rafforzare infrastrutture e servizi della città pubblica (5).
La pianificazione urbanistica, chiamata territoriale quando interessa un ambito più vasto dei confini amministrativi comunali, dovrebbe in una democrazia mettere al centro dell’attenzione il governo dei beni comuni, come il suolo, il territorio, l’ambiente, gli spazi urbani e i servizi pubblici. Dovrebbe occuparsi di valorizzare il territorio anche coinvolgendo le risorse dei privati, mediando con questi, ma sempre nell’interesse prioritario della comunità e delle sue necessità.

Certo le norme non aiutano, specie in Lombardia, dove sembrano fatte apposta per mettere gli interessi particolari al centro del percorso di pianificazione, che non a caso inizia con la raccolta delle istanze dei privati. Se si parte dal dettaglio si rischia di perdere la visione d’insieme, che è necessaria per pensare il futuro della comunità locale, per discutere in modo lungimirante e trasparente di servizi pubblici, ambiente, infrastrutture, lavoro, vivibilità. Per preparare un piano bisogna partire dalla città pubblica, prima di tutto censendo i fabbisogni della comunità, dimensionando i servizi occorrenti per soddisfarli, individuando le risorse economiche per attuarli e fattibili fonti di finanziamento. Attraverso il confronto pubblico, basato anche su queste informazioni, si individuano i possibili scenari futuri per la città e le azioni operative per attuarli. Solo dopo avere delineato linee strategiche e obiettivi il piano potrà aprire alle proposte dei privati, da valutare per la coerenza con gli obiettivi della città pubblica e il contributo che possono dare al loro raggiungimento. Attraverso il percorso di pianificazione si torna a parlare di scelte pubbliche, le si fa conoscere e le si mette in discussione, si dà spazio alla partecipazione, superando l’indifferenza e ridando fiato alle forze culturali e associative locali.

Nella seconda parte di questo articolo affronterò l’altro fattore che il libro di Tozzi non considera: la dimensione metropolitana di Milano.


NOTE

  1. Per una sintesi della tesi illustrata dal libro si veda la quarta di copertina del libro. Di seguito il testo integrale: “Solo dieci anni fa Milano era vista come una città produttiva, elegante, ma grigia. Poi, con l’Expo2015, ha assunto l’immagine di una metropoli splendente e attrattiva. Il passaggio però non è la conseguenza di una trasformazione oggettiva ma, all’opposto, è la metamorfosi fisica a essere effetto di una campagna di marketing senza precedenti, il cui successo è stato ottenuto spostando le risorse materiali e intellettuali destinate alla produzione di cultura, ricerca, servizi di welfare verso la produzione dell’immagine di una metropoli globale del lusso. L’aspetto più perturbante dell’intero processo è il ruolo giocato dalla finanza, impegnata in una doppia missione: concentrazione della ricchezza attraverso la privatizzazione della città pubblica, dei suoi spazi e delle sue istituzioni sociali e culturali; cattura o neutralizzazione delle forze che potrebbero produrre attrito nel sistema e lotta alle disuguaglianze”.
  2. I passaggi esemplificativi sono stati rielaborati dall’autore dell’articolo che si assume la responsabilità per eventuali imprecisioni dovute alla necessità di sintesi.
  3. Nel libro viene usato il termine anglosassone “short term” con il quale vengono individuati gli individui nomadi che si trasferiscono con frequenza, che abitano le città per periodi medio brevi, che non hanno radici da difendere per affezione o per necessità, e che quindi sono ritenuti più aperti e disponibili a farsi entusiastici portatori del nuovo modello Milano. Questi vengono contrapposti ai nativi o abitanti da lungo termine, che a torto o a ragione sono ritenuti più restii alle innovazioni.
  4. Come scrive l’autrice alla pagina 116 del libro: “Fu in nome della ‘flessibilità’ e della ‘sussidiarietà’ che nel 2000 Mazza curò per l’allora assessore allo sviluppo del territorio, Maurizio Lupi (area Compagnia delle Opere), il documento Ricostruire la grande Milano, per ridimensionare il potere decisionale dei piani urbanistici e lanciare una nuova era di grandi trasformazioni urbane”. Luigi Mazza era professore di urbanistica presso il Politecnico di Milano.
  5. L’art 16 comma 4 lettera d-ter del DPR 380/2001, noto agli operatori anche come Testo unico sull’edilizia, stabilisce che il maggiore valore generato dagli interventi in variante urbanistica o in deroga debba essere erogato, in misura non inferiore al 50%, dalla parte privata al comune. Le regioni hanno recepito in modo differenziato questa norma. La Lombardia ha stabilito che non si applica, anche se si tratta di una norma nazionale.