Colin Ward (1924-2010), uno dei massimi pensatori anarchici della seconda metà del XX secolo che molto ha scritto anche di questioni urbane, nel 1989 analizzava, a partire dal disastroso caso di Birmingham, il processo di sostituzione della tradizionale grana fine del tessuto urbano con quella grossa della città pensata per il traffico automobilistico e la redditività finanziaria. Quest’ultima si era liberata di tutte quelle piccole attività economiche – «riparatori di ombrelli, tiralinee per registri contabili, manutentori di macchine da cucire, corniciai, pasticceri, confezionatori di scarpe da ballo» – per diventare il luogo dove solo le imprese dai grandi numeri di capitale, fatturato e profitto potevano essere ammesse. L’analisi che Ward fa del tessuto urbano e delle sue trasformazioni ricorda molto gli scritti di Jane Jacobs della fine degli anni Cinquanta, dove la sua osservazione degli effetti del rinnovamento urbano di New York si focalizza sulla perdita di migliaia di piccole attività, la cui presenza è una delle componenti fondamentali della vita urbana perché ne struttura la diversità tipica di un ecosistema. Leggere Colin Ward è quindi utile alla definizione di una genealogia del pensiero critico all’urbanistica del Novecento che ha assunto connotazioni di tipo libertario (ma non liberista, come qualcuno vorrebbe far credere almeno nel caso di Jane Jacobs) in opposizione alla visione autoritaria della città contemporanea, già ben visibile nella Ville Radieuse di Le Corbusier.
Per continuare a leggere questo articolo siete pregati di richiederne copia a millenniourbano@gmail.com.
L’immagine di copertina è tratta da Archive photos of Birmingham in the 1960s.