Nel 1961 Phyllis Chasanow decise d’iscriversi al Dipartimento di Pianificazione Urbana e Regionale della Graduate School of Design di Harvard. Come risposta al modulo che aveva inviato, ricevette la lettera di un assistente del dipartimento nella quale le veniva chiesto di motivare la sua scelta in considerazione del suo ruolo di donna sposata. La sua richiesta d’iscrizione sarebbe stata presa in considerazione se accompagnata da una relazione nella quale avrebbe dovuto esporre in che modo intendeva conciliare le responsabilità verso suo marito e la sua futura famiglia con la carriera da urbanista. Come se ciò non bastasse, nella lettera lo scrivente le comunicava la convinzione che le donne sposate, quando intendono dotarsi di una educazione professionale, esprimono una tendenza a sprecare tempo e sforzi. Non rispose a quella lettera e non intraprese una carriera da urbanista, anche se ebbe un’esperienza professionale nella Commissione Urbanistica della città di Filadelfia, ma nel giugno 2013 Phyllis Richman, che a seguito del matrimonio aveva acquisito il cognome del marito e intrapreso una carriera da critica culinaria per il Washington Post, decise di pubblicare quella lettera sul suo giornale, insieme alla risposta che non ebbe il coraggio di scrivere e che denunciava quanto la discriminazione subita abbia pesato sulle sue scelte professionali.
Nello stesso anno in cui il progetto di Phyllis Richman di diventare un urbanista veniva così pesantemente frustrato, un’altra giornalista, Jane Jacobs, pubblicava il suo libro più famoso, The Death and Life of Great American Cities, tradotto in italiano nel 1969 con il titolo Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, nel quale individua una fenomenologia urbana che, per usare le sue parole, aveva lo scopo di aprire gli occhi del lettore circa un differente modo di guardare alla città, affinché capisca cosa vede. Essa si basa su quattro fondamentali fattori in grado di sostenere la vita dell’organismo urbano:
- la presenza del maggior numero di funzioni di base (abitazioni, attività commerciali, imprese, servizi, ecc.). Si tratta di un aspetto che ha a che fare con la DIVERSITA’ tipica degli ecosistemi e di conseguenza anche di quello urbano;
- la piccola dimensione degli isolati che ha come conseguenza il maggior numero di strade da percorrere e di angoli da svoltare. Questa caratteristica rende possibile la CONNESSIONE dei vari elementi di cui si compone l’ambiente urbano;
- edifici di diversa età e condizione che garantiscono la VARIABILITA’ delle nicchie ecologiche sulla quale si basa la vitalità degli ecosistemi e di conseguenza anche di quello urbano;
- una buona densità di popolazione per favorire l’incontro delle persone e consentire l’INTERDIPENDENZA dei differenti settori di cui s compone la città.
Si tratta di aspetti che la città razionalista del ‘900 ha variamente contrastato, preferendo invece:
- l’OMOLOGAZIONE di un dato settore urbano alla funzione ritenuta più consona dal piano;
- la SEPARAZIONE delle funzioni in modo da creare zone funzionalmente omogenee ottenuta attraverso la grande dimensione sia degli edifici che degli isolati;
- la STANDARDIZZAZIONE delle tipologie edilizie per ogni tipo di zona omogenea;
- l’AUTOSUFFICIENZA dei singoli settori urbani per controllarne la densità demografica ed evitare i problemi di carattere igienico e sociale tipici del sovraffollamento.
Nei sessant’anni trascorsi dalla pubblicazione di quel libro le critiche all’idea meccanicistica dell’ambiente urbano che vi sono contenute hanno avuto una vasta eco e tuttavia in pochi hanno colto la precisa relazione che esiste tra la donna che l’ha scritto e le argomentazioni che vi sono sviluppate. Il fatto che Jacobs appartenesse al genere femminile è quasi passato inosservato, come se la più radicale critica della città novecentesca non avesse nulla a che fare con il suo essere stata pensata da chi non apparteneva al genere dominante la professione urbanistica. Eppure in Vita e morte delle grandi città non ha mancato di sottolineare come le donne fossero considerate dagli urbanisti maschi che stavano trasformando le città americane delle insignificanti massaie occupate soltanto nella cura dei loro mocciosi.
Il concetto di genere, se utilizzato come un indicatore della condizione socio-culturale – piuttosto che biologica – delle persone, può efficacemente fungere da criterio di valutazione e di indirizzo delle politiche urbane non solo sotto il profilo dell’uguaglianza e delle pari opportunità tra uomini e donne ma anche delle sue ricadute sulla società nel suo complesso. Nello scenario di predominanza culturale del modello della città razionale, pensata per il maschio adulto, lavoratore ed automunito, l’esperienza avviata a Vienna a partire dagli anni ’90, con più di sessanta progetti pilota nel campo della pianificazione urbana ispirati al gender mainstreaming, può essere considerata come una delle applicazioni più significative dell’idea di diversità urbana – da incentivare e preservare – anticipata da Jane Jacobs.
Il fatto che persone di diverso genere, età, condizione economica, sociale e culturale abbiano modi diversi di usare lo spazio urbano determina il modo in cui la città si trasforma. Si tratta, molto concretamente, di accorciare le distanze tra le strutture fisiche che costituiscono la città e i suoi utilizzatori in relazione alle loro diversità. Ciò vuol dire più spazio pubblico in termini di quantità ed accessibilità, un’idea di mobilità che consenta a tutti di spostarsi agevolmente e in sicurezza, una forte integrazione tra residenze, servizi e le varie funzioni urbane, una particolare attenzione per i bisogni di chi, oltre al lavoro retribuito, impiega buona parte del proprio tempo per quello gratuito di cura. In altri termini, una città che utilizza le necessità delle donne come indicatore per le sue trasformazioni finisce per essere più attenta ai bisogni della società e delle sue diverse componenti.
Eva Kail, un’esperta di questioni di genere presso il nucleo cittadino di pianificazione urbana, sostiene che l’approccio adottato da lei e dal suo gruppo si basa essenzialmente sull’osservazione dell’uso dello spazio pubblico, di chi lo utilizza e per quali scopi. Da questa analisi discende l’individuazione di cosa interessa e serve ai differenti gruppi di cittadini sotto forma di indirizzi alla pianificazione urbana. L’esperienza di Kail iniziò nel 1991 con la mostra fotografica “ Di chi è lo spazio pubblico – La vita quotidiana delle donne nella città”, che mise in evidenza come i differenti tracciati delle donne nello spazio urbano abbiano in comune la stessa richiesta di sicurezza e facilità di movimento. La mostra ebbe un gran numero di visitatori e notevole risalto mediatico, così i politici locali decisero di far proprio l’approccio di genere nelle politiche urbane. Il primo progetto realizzato fu un complesso di appartamenti, progettato da e per le donne nel ventunesimo distretto della città, chiamato Women-Work-City. All’interno del complesso, situato in prossimità del trasporto pubblico, si trovano aree verdi per il gioco dei bambini, un asilo, una farmacia ed uno studio medico. Il tutto aveva l’obiettivo di rendere più facile la vita delle donne divisa tra lavoro e funzioni di cura.
L’idea di realizzare insediamenti di edilizia residenziale dotati di servizi non è certo nuova e discende dalla tradizione del socialismo utopistico, vecchia di due secoli, che ha via via prodotto una serie di falansteri urbani pensati per comunità di lavoratori. A Vienna, durante la stagione socialista tra il 1919 e il 1933, essa aveva trovato una diffusa applicazione in una serie di interventi pubblici che hanno testimoniato l’efficacia del ruolo della municipalità nella politica della casa. Anche in quel caso la trasmigrazione dal contesto edilizio a quello urbano di un approccio che considera l’abitare non confinato nelle mura domestiche costituiva l’aspetto innovativo. Lo sviluppo successivo di questa idea che integra la casa alla città ha riguardato anche la progettazione delle aree verdi di Vienna, il miglioramento dei percorsi pedonali e l’accessibilità del trasporto pubblico. Il principio è che la città debba essere prossima alla vita dei cittadini: si tratta di accorciare le distanze tra i luoghi dove le persone vivono e lavorano, significa più servizi, attività commerciali, spazi e trasporto pubblico accessibile e sicuro. Vuol dire, in sintesi, una visione dello spazio urbano in cui prevalga l’interesse pubblico, perché solo così si può sostenere quello privato.
Nel caso dell’esperienza viennese l’approccio si è basato sulla centralità dei bisogni degli utenti. Nella progettazione delle aree verdi erano stati registrati usi diversi secondo il genere in particolare tra la popolazione giovanile. Nel 1999 i pianificatori urbani hanno riprogettato due parchi del quinto distretto della città con l’intento di allargare il numero ed il tipo di frequentatori, avendo precedentemente registrato che le ragazze erano meno propense ad utilizzare gli spazi verdi poiché spesso scoraggiate dall’invadenza maschile. Sono stati introdotti sentieri per migliorare l’accessibilità e aree per attività sportive che incrementassero l’utenza, così come accorgimenti progettuali del verde intesi a suddividere gli ampi spazi aperti. Il cambiamento non tardò a produrre risultati e, senza che scaturissero conflitti, differenti gruppi di ragazze e ragazzi cominciarono a frequentare i parchi.
Dello stesso anno è il progetto finalizzato a rendere più accessibile il trasporto pubblico e migliori e più sicuri i percorsi pedonali secondo le necessità espresse dalle donne. Il progetto discende dalle rilevazioni fatte a seguito di un’inchiesta rivolta a tutta la popolazione del nono distretto e relativa alle modalità ed alle ragioni degli spostamenti. Mentre la maggioranza degli uomini aveva dichiarato di utilizzare l’auto o il trasporto pubblico due volte al giorno per il tragitto casa-lavoro, le donne avevano messo in evidenza la molteplicità delle ragioni di spostamento, legate soprattutto al ruolo di cura di bambini ed anziani che è ancora loro prerogativa. Furono realizzati marciapiedi più spaziosi e meglio illuminati e infrastrutture che facilitassero l’accesso alle intersezioni del trasporto pubblico, dove anche chi spinge un passeggino o una sedia a rotelle possa raggiungere ed utilizzare facilmente i mezzi in transito.
L’approccio alla pianificazione urbana gender mainstreaming. malgrado i risultati promettenti, ha anche suscitato critiche e sarcasmo. Quando il gruppo di Eva Kail, propose la mostra fotografica “ Di chi è lo spazio pubblico – La vita quotidiana delle donne nella città”, qualcuno disse cose tipo “allora dovremmo dipingere le strade di rosa?” Evidentemente la pianificazione orientata alla questione del genere può suscitare reazioni emotive, come sentirsi attaccati, tra coloro che non l’avevano presa in considerazione. Vi è però il rischio che nel caratterizzare i differenti usi della città tra uomini e donne si rinforzino gli stereotipi alla base delle differenze di genere. La stessa espressione gender mainstreaming è stata successivamente messa da parte dai funzionari pubblici che preferiscono usare l’etichetta “Città Equamente Condivisa”, forse ritenuta meno politicamente orientata.
Malgrado i limiti emersi, l’approccio alla pianificazione urbana utilizzato da Kail e dal suo gruppo ha lasciato un segno sulla capitale austriaca e si sta ora evolvendo verso il tentativo più ampio di cambiare la struttura ed il tessuto della città, così che i differenti gruppi di cittadini vi possano convivere senza conflitti. Si tratta di un visione politica della pianificazione della città che cerca di portare nello spazio urbano persone delle quali prima non si riconosceva l’esistenza o che si sentivano prive del diritto di esistere. Ma vi è un altro aspetto dell’esperienza del gruppo di pianificatrici urbane viennesi che vale la pena di sottolineare ed è che solo le donne, e non solo quelle professionalmente coinvolte nei processi di trasformazione delle città, possono farsi carico del compito di rappresentare gli interessi del genere a cui appartengono.