Con la riforma Delrio viene a mancare il riferimento istituzionale principale per il coordinamento dei temi di area vasta, anche se non l’unico quello che certamente aveva gli strumenti per svolgere il ruolo e che era riconosciuto come tale. La provincia continua sulla carta, secondo la riforma, ad avere una funzione di coordinamento territoriale ma il PTCP viene di fatto sviluppato dai comuni, che ora si occupano anche di area vasta, oltre che di funzioni di prossimità. In un’epoca di forte frammentazione delle competenze, invece di semplificare e unificare, si è arrivati con le ultime norme a frammentare anche la funzione di coordinamento territoriale, che è a questo punto ripartita tra i piani territoriali e di settore ai diversi livelli. Servirebbe una guida per ricomporre questa frammentazione, ma non essendo più prevista i diversi piani sul territorio dovranno cavarsela inventando forme di autogestione. La capacità di “mettere in contatto” (si veda articolo di approfondimento precedente) sviluppata dalle province nei 25 anni successivi alla riforma del 1990 diventa patrimonio prezioso, da non disperdere, in una situazione dove sarà sempre più importante affinare modalità e strumenti per la cooperazione interistituzionale.
In linea teorica i piani comunali associati potrebbero avere un’ampia diffusione, a patto che i comuni aderenti riescano a costruire una visione condivisa del futuro della propria comunità associata. Cosa non semplice. La maggiore parte delle regioni non ha ancora un sistema diffuso di unioni, e spesso le unioni esistenti sono di piccola consistenza. Poche regioni hanno un sistema di unioni più strutturate, con esperienze significative sui servizi, ma molto rare sulla pianificazione. Siamo ancora molto indietro, e la recente decisione di rinviare ancora l’obbligo di esercizio associato delle funzioni fondamentali per i piccoli comuni è un chiaro segnale.
Sindaci e amministratori comunali dovrebbero sviluppare i piani territoriali di province e città metropolitane, ora che siedono negli organi dell’ente intermedio. Tuttavia è venuto completamente meno il meccanismo di protezione rispetto ai conflitti di interesse tra rappresentanze istituzionali, che era un po’ complicato, farraginoso, e talvolta lacunoso, ma che almeno sulla carta c’era e in caso di bisogno poteva essere fatto valere. Oggi è difficile pensare che i comuni siano disposti a sviluppare un piano provinciale dotato di regole precise e stringenti nei confronti della pianificazione comunale. Situazioni di conflitto possono generarsi anche per i pareri sui piani comunali.
Esiste concreto il rischio di soluzioni radicali, come per esempio la cancellazione della parte strategica, retrocedendo i PTCP ai quadri conoscitivi e strutturali di fine anni novanta. Questo significherebbe dovere trovare il modo di affrontare in modo soddisfacente gli aspetti strategici di area vasta in altri livelli di pianificazione. Difficile immaginare che questo possa avvenire nei piani associati comunali (come qualche regione pensa di fare) o nella pianificazione regionale (come qualche altra regione sta provando ad attuare). Più plausibile che si debbano mettere a sistema le competenze di pianificazione dei diversi livelli istituzionali. Il PTCP potrebbe, previa intesa con i comuni aderenti, assumere il valore di livello strutturale e strategico per i piani dei comuni in unione o associati. La riforma Delrio enfatizza e ampia per la provincia, e la città metropolitana, il ruolo di supporto tecnico amministrativo ai comuni, ed in tale senso bene si collocherebbe un’attività strutturata di affiancamento a unioni e comuni per la formazione di piani associati. Integrare pianificazione provinciale e associata comunale avrebbe il vantaggio di aiutare i comuni a focalizzare l’attenzione sui temi sovracomunali prioritari, senza disperdersi nelle intercomunalità di dettaglio.
I piani territoriali delle regioni sono in generale scarsamente dotati in merito alla strumentazione di attuazione. Con la riforma Delrio potrebbero tuttavia doversi occupare di coordinamento territoriale, pur non avendo le regioni mai sviluppato una cultura della cooperazione interistituzionale. Risultati migliori in termini di efficacia potrebbero ottenersi mettendo a sistema i piani territoriali di regione e province, utilizzando il meglio delle potenzialità di entrambe gli strumenti.
Nei piani regionali potrebbero essere definite le regole di base, come i limiti per il consumo delle risorse scarse e non rinnovabili (a cominciare dal suolo), le regole per la perequazione territoriale, le principali tutele paesaggistiche. Si tratta di aspetti che sarebbe difficile affrontare in modo soddisfacente nei piani provinciali, stante la presenza dei comuni negli organi dell’ente intermedio, e che più facilmente potrebbero essere affrontati nel piano regionale, più distante e autonomo dagli interessi locali.
Ai PTCP spetterebbe il compito di declinare e differenziare le regole secondo le caratteristiche dei diversi contesti di area vasta, pur ovviamente restando entro i limiti minimi e massimi fissati dalla regione. Per fare questo potrebbero essere utilizzati i tavoli di area vasta sviluppati in questi anni dalle province per condividere con i comuni i contenuti dei piani territoriali.
Esiste un altro strumento di pianificazione che dopo la riforma entra a fare parte degli strumenti protagonisti della scena di area vasta. Si tratta del piano del comune capoluogo, che nel passato ha sempre comportato effetti di area vasta, creando non poche frizioni tra capoluoghi e rispettive province. Oggi il comune capoluogo ha un peso ponderale e ruolo politico determinante negli organi della provincia, deve responsabilmente assumersi un compito di promozione per l’area vasta di riferimento e deve preoccuparsi di coordinare e armonizzare le proprie scelte con quelle dei comuni di cintura e in diretta relazione funzionale.
Molte delle considerazioni sopra, quasi tutte, si applicano anche alla città metropolitana, tenendo tuttavia in conto che esistono alcune differenze tra i due enti, di non poco conto per il governo del territorio. A cominciare per esempio dal fatto che la conferenza metropolitana, l’organo che raccoglie tutti i sindaci, ha poteri propositivi ma non di controllo nei confronti di sindaco e consiglio metropolitano, mentre l’assemblea dei sindaci, organo della provincia, è dotata anche dei poteri di controllo. Questo, unitamente alla figura di sindaco metropolitano che è per il momento individuata ope legis nel sindaco del comune capoluogo, configurano un ente intermedio città metropolitana dall’impostazione molto più centralista.