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Urbanistica a Milano tra apocalittici e integrati

O solitude, my sweetest choise.  Henry Purcell, grazie ai versi di Katherine Philips, morta di vaiolo nell’affollatissima Londra del 1664, ci ricorda in musica che la solitudine, come condizione dello stare da soli, è una libera scelta.  Condizione che poteva anche essere salvifica in presenza di malattie contagiose non ancora contrastate da vaccini o antibiotici ma solo dall’isolamento. L’inglese prevede che la condizione dell’essere soli sia descritta dalla parola loneliness, a cui il Regno Unito assegna una commissione ministeriale dal 2018. Il governo britannico è stato il primo al mondo a rendere pubblica una strategia di riduzione della solitudine che comprende iniziative come la “prescrizione sociale” da parte dei medici di base, ovvero indirizzare i pazienti che soffrono per le conseguenze dell’isolamento sociale (loneliness) verso programmi locali di attività di gruppo e di relazione. Il governo britannico, tramite il servizio sanitario nazionale, distribuisce fondi ai soggetti che si dedicano alla lotta alla solitudine e ai progetti per la sua riduzione. Si tratta quindi di provvedimenti di salvaguardia della salute pubblica che trovano applicazione nei differenti contesti locali, indifferentemente dagli aspetti insediativi che li connotano. Si possono, quindi, mettere in relazione le caratteristiche insediative con l’esclusione sociale, sia che si tratti di una condizione percepita che reale? Quali sono gli elementi dell’ambiente costruito che possono favorire l’esclusione sociale, o una condizione di isolamento che può diventare patologica sotto il profilo clinico?

Sul rapporto tra forma urbana, obesità e diabete esiste ad esempio uno studio finanziato dal Canadian Institutes of Health Research sulla città di Toronto e sugli abitanti dei suburb nordamericani, dove la dipendenza dall’auto è una conseguenza del modello insediativo che può far insorgere varie patologie. Ce ne siamo tra l’altro occupati qui. Ma una condizione così individuale come la loneliness può essere messa in relazione con le caratteristiche insediative del luogo dove il singolo vive? Forse sì ma risulta assai difficile fare l’opposto, ovvero implicare che  le caratteristiche insediative di un determinato luogo possano avere come conseguenza l’isolamento sociale (loneliness) di una o più persone, con le ricadute patologiche che un medico può tuttavia constatare  solo sul singolo paziente.

L’era della solitudine è il titolo della puntata di domenica 20 ottobre 2024 della trasmissione di Rai 3 Presa Diretta. Nella rassegna delle varie forme in cui si manifesta la loneliness nel mondo occidentale la trasmissione ha incluso il caso di Milano, con la sua maggioranza di abitanti single (condizione che di per sé non implica l’esclusione sociale) e le tante persone delle quali purtroppo il Comune si fa carico del funerale, in assenza di alcun legame affettivo. Naturalmente non poteva mancare, nella narrazione proposta, l’evocazione del cosiddetto Modello Milano sul quale si esercita la critica di un libro di cui ci siamo occupati qui . Meglio evitare in questa sede di ritornare sul tema e sui molti dubbi, anche di natura metodologica, che quel libro suscita e concentrarsi sull’esempio utilizzato dalla trasmissione per rappresentare la loneliness della quale soffrirebbero i poveri milanesi, single e non.

Il quartiere milanese che rappresenterebbe questa condizione, in particolare secondo l’intervento di una docente di urbanistica del Politecnico, è Cascina Merlata situato nel quadrante nord ovest della città. Tralasciamo la descrizione lacunosa fatta dalla docente, che non si è accorta dell’esistenza dello spazio pubblico, nelle sue varie forme,  tra i complessi residenziali costruiti e in costruzione per iniziativa dei tanto vituperati protagonisti del Modello Milano real estate oriented. Concentriamoci invece sull’audacia con la quale la stessa si è avventurata a mettere in relazione certe caratteristiche insediative con una personale condizione esistenziale, la loneliness, secondo lei potenzialmente favorita dal modello di cui sopra. Gli abitanti del quartiere, ormai qualche migliaio, non l’hanno presa bene e si sono organizzati per far sentire la loro indignazione sia alla trasmissione che alle docente. Contestualmente anche il lato real estate ha messo a punto la sua narrazione. Il maggior sviluppatore dell’area ha commissionato a un personaggio televisivo (che fa una trasmissione dedicata al settore) un video diffuso sui social network dedicato al bel parco del quartiere completamente omesso dalla docente di urbanistica. Il brand con il quale la società di sviluppo immobiliare commercializza le sue residenze viene appiccicato al parco, ignorandone la natura pubblica. Chi conosce un minimo Milano sa che un bel parco, qual è oggettivamente quello di Cascina Merlata, può fare la differenza rispetto alla scelta del quartiere in cui abitare.

Lo strumento urbanistico che ha consentito al quartiere Cascina Merlata di diventare un pezzo di Milano dove è previsto che abiteranno circa quindicimila abitanti è un Programma Integrato d’Intervento, adottato nel 2011 e variato nel 2017 su un’area dismessa agricola e produttiva di più di mezzo milione di metri quadri. Si tratta quindi di uno dei tanti interventi attuati con un dispositivo di legge che, dalla fine degli anni Novanta, ha consentito di trasformare molte aree della città. Garibaldi-Repubblica, City Life, Portello – per citare solo i quartieri dove hanno lavorato alcune delle cosiddette archistar – sono tre celebri esempi di come l’urbanistica a Milano coincida per buona parte con la rigenerazione urbana, al punto che anche l’assesorato che se ne occupa oggi si chiama così.

Cascina Merlata è quindi un perfetto esempio della via ambrosiana all’urbanistica a cui indirizzare tutte le critiche che riguardano in generale il Modello Milano. I recenti sviluppi giudiziari relativi a procedure edilizie che esulano dagli ordinari strumenti urbanistici hanno corroborato le critiche al modello, spesso anche con la scorretta equiparazione tra le torri residenziali autorizzate tramite SCIA e quelle realizzate in forza di un regolare piano attuativo. Nel servizio di Presa Diretta spunta poi il cattivo della fiaba: il centro commerciale, elemento che fa parte dei più celebri e centrali quartieri sopra citati.  Il centro commerciale è la materializzazione del non luogo al quale gli abitanti del quartiere sarebbero condannati a rivolgersi per i loro bisogni primari. Che quel tipo di spazio sia il regno di relazioni sociali povere e fredde, che contrastano con quelle calde di cui parlava nel servizio la docente di urbanistica, è materia di studio che non ha ancora trovato unanimi gli etnologi, gli antropologi, i sociologi e tanto meno gli urbanisti. Lo stesso Marc Augé, cui si deve il termine, ha proposto di rivedere il concetto da lui forgiato: forse è meglio chiamarli superluoghi.

Tutta questa vicenda ha ovviamente un risvolto mediatico che, grosso modo, può essere rubricato nella contrapposizione descritta da Umberto Eco sessant’anni fa in Apocalittici e integrati. Scrive Vanni Codeluppi su Doppiozero ricordandone l’anniversario.

Eco in Apocalittici e integrati, oltre a un innovativo metodo di analisi dei prodotti della cultura di massa, ha proposto anche diversi concetti teorici, uno dei più rilevanti dei quali è stato sviluppato nelle pagine finali del libro: la questione della quantità di potere a disposizione dei soggetti coinvolti nei processi di comunicazione. 

Ecco, è bene concentrarsi proprio su questo aspetto nella vicenda qui raccontata: la quantità di potere a disposizione della televisione, di un membro dell’accademia e di uno dei soggetti coinvolti nella trasformazione del luogo oggetto della narrazione. Da una parte va in onda l’apocalisse – il modello urbano che produrrebbe la loneliness  – e dall’altro l’integrazione – il conduttore televisivo che corre nel parco del quartiere come se fosse uno dei suoi abitanti – e questa contrapposizione narrativa si basa sul potere di cui i soggetti coinvolti possono disporre. 

Zygmunt Bauman, in La solitudine del cittadino globale (Milano,Feltrinelli, 2008, p.106) sostiene

Secondo Eco, la differenza tra apocalisse e integrazione equivale, in altri termini, alla differenza tra prospettive cognitive; meglio, tra presenza e assenza di ideali precostituiti: forse tra utopia e realismo (…).

Nello spazio non occupato dalle differenti prospettive cognitive c’è l’esperienza degli abitanti di quel quartiere milanese, i quali, evidentemente, nel processo di comunicazione del luogo in cui vivono, non hanno potuto disporre di alcun potere. Malgrado l’urbanistica partecipativa sia un tema sul quale anche l’ateneo da cui proviene la docente del servizio televisivo si è esercitato, la capacità di superare la differenza tra utopia e realismo non viene ancora riconosciuta a chi,  semplicemente abitando il luogo attraversato da quella differenza, ogni giorno sperimenta lo sforzo di mediazione tra i due concetti.

Di Michela Barzi

Laureata in Architettura presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Si è occupata di pianificazione territoriale ed urbanistica per vari enti locali. Ha pubblicato numerosi contributi sui temi della città, del territorio e dell'ambiente costruito in generale e collaborato con istituti di ricerca e università. Ha curato un'antologia di scritti di Jane Jacobs di prossima pubblicazione presso Elèuthera. E' direttrice e autrice di Millennio Urbano e scrive per altre riviste.